Dossier: Eutanasia e testamento biologico

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    Roberto Mezzana

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    Eutanasia e suicidio: che giudizio dare?


    Esistono molte ragioni “laiche” per mostrare che l’omicidio del consenziente e la soppressione della propria vita sono sempre inaccettabili. Eccone alcune.




    Chiariamo subito una questione essenziale. Se le persone chiedono l'eutanasia perché soffrono, la risposta al dolore non è l'eutanasia, bensì le cure palliative: pochi lo sanno, ma queste cure possono controllare il dolore nel 90% e anche di più dei casi (come afferma l'American Pain Society, che annovera più di 3.000 membri tra ricercatori ed epidemiologi; cfr. anche l'intervista a M. Maltoni in questo dossier) e, nei pochissimi casi in cui non ci riescono, il dolore può essere eliminato mediante la sedazione.
    Detto questo procediamo.





    1. Come avviene l’eutanasia?
    Uccidendo un uomo mediante un'azione (per es. con un'iniezione o staccando il sondino che gli dà da bere e da mangiare e/o staccando il respiratore che lo fa respirare) o mediante un'omissione (per es. non dandogli da mangiare e da bere quando non è in grado di alimentarsi da solo).
    Ancora, si parla di suicidio assistito quando si coopera al suicidio di una persona fornendole supporto.





    2. Eutanasia mediante un'azione/mediante un'omissione.
    Dal punto di vista etico non c'è distinzione morale tra procurare la morte di un uomo mediante un'azione o mediante un'omissione: in tutti e due i casi si è appunto responsabili della morte di un uomo.
    Ebbene, il suicidio e l'eutanasia sono sempre e comunque malvagi, sebbene talvolta vengano compiuti in circostanze drammatiche che ne attenuano l'imputabilità.





    3. Né accanimento terapeutico, né eutanasia
    D'altra parte, esistono circostanze (cfr. l'articolo di M. Palmaro in questo dossier) in cui un malato è sottoposto ad accanimento terapeutico. Anche l'accanimento terapeutico è malvagio e quindi va evitato. Ma non praticare delle terapie o sospenderle perché configurano un accanimento è ben diverso dal praticare l'eutanasia (cfr. ibidem).





    4. La somministrazione di cibo e fluidi e la ventilazione meccanica sono terapie?
    Definizione di terapia (dal Dizionario Devoto Olì): «branca della medicina che tratta dei mezzi e delle modalità usati per combattere le malattie». Dunque alimentazione> idratazione e ventilazione meccanica non sono terapie: infatti non combattono una malattia, bensì soddisfano il bisogno di mangiare, di bere e di respirare, un bisogno che non è una malattia, bensì una caratteristica di tutti (anche il bisogno di nutrizione e di idratazione di Eluana Englaro non dipende dal suo stato «vegetativo», bensì dipende dalla condizione umana).
    È vero che per la nutrizione-alimentazione artificiale viene usato un mezzo artificiale-tecnico (il sondino), ma anche il biberon per i bambini è un mezzo tecnico (sempre più perfezionato: termoresistente, in plastica infrangibile, ecc). Inoltre, e soprattutto, usare uno strumento nei riguardi di una persona non significa per forza mettere in atto una terapia (fotografare una persona non vuoi dire praticarie una terapia).





    5. Sono sproporzionate?
    Lo sono solo quando sono pratiche inutili o in se stesse dolorose, non certo quando la vita che tali pratiche conservano è dolorosa per altre cause. In tutti gli altri casi, interrompere queste pratiche significa far morire di fame e di sete (come è avvenuto a Terri Schiavo) o di soffocamento un essere umano che, tra l'altro, anche in stato «vegetativo», è possibile che provi dolore.
    Ciò non toglie che un malato può lecitamente desiderare ancora un po' di tempo per ottemperare a doveri famigliari o personali (vedere un parente lontano, riconciliarsi con qualcuno, fare testamento, assolvere agli obblighi religiosi, ecc.) e quindi può chiedere il prolungamento della sua vita anche con mezzi sproporzionati.





    6. «Vivere grazie ad una macchina è contro natura».
    Risposta: se fosse malvagio vivere grazie ad un macchina, allora dovremmo distruggere non solo i pace makers, ma anche tutte le macchine che consentono di sopravvivere a chi vuole farlo: molti malati, pur trovandosi in una situazione simile a quella di Welby, vogliono vivere grazie alle macchie ciò non è malvagio, purché la macchina non realizzi un accanimento terapeutico.
    Ciò che è moralmente sbagliato è l'accanimento mediante una macchina, non l'uso in sé di una macchina.










    Argomenti contro il suicidio e l'eutanasia
    Contro il suicidio e l'eutanasia esistono diversi argomenti filosofici. Per ragioni di spazio ne possiamo menzionare solo tre.





    7. Argomento che fa leva sull'esistenza di Dio
    Noi non abbiamo la nostra vita in proprietà, ma in usufrutto. Noi, cioè, non apparteniamo a noi stessi, la nostra vita appartiene a Dio.
    Tale argomento è filosofico perché l'esistenza di Dio è dimostrabile filosoficamente (cfr. le prove filosofiche dell'esistenza di Dio, valide anche dopo Kant, sia pur bisognose di rigorizzazione) ed è l'argomento più semplice, ma il meno utilizzabile nel dibattito pubblico, perché pochi sanno che Dio è dimostrabile con la ragione e pochi accettano le dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Comunque, non è necessario essere cristiani per svolgere questo argomento contro il suicidio, tanto è vero che si trova anche in autori non cristiani come, per esempio, Pitagora, Socrate e Platone.





    8. Argomento che fa leva sulla responsabilità verso gli altri
    Come dice - di nuovo prima del cristianesimo - Aristotele (EN, 1138a 9-14), noi abbiamo delle responsabilità verso gli altri (a cominciare dai nostri familiari), verso la società, dobbiamo contribuire al bene comune: il suicidio e l'eutanasia (Aristotele non la menziona, ma il discorso vale per analogia) ci impediscono di onorare questi obblighi. Il discorso vale per chi si suicida o chiede l'eutanasia non trovandosi in condizioni di particolare sofferenza o debilitazione che già gli impediscano di assolvere questi obblighi.





    9. Argomento che fa leva sulla dignità umana
    9.1. Come dice Kant, «mentre le cose hanno un prezzo, gli uomini hanno una dignità», cioè non hanno prezzo, e noi siamo tenuti a rispettare incondizionatamente la dignità umana: quest'ultima viene distrutta da suicidio ed eutanasia.
    9.2. La dignità umana è la preziosità dell'uomo, è il valore incommensurabile dell'uomo e risiede nel suo esserci, cioè nel suo esistere, non nel suo esercitare determinate operazioni e non solo nel suo essere libero.
    9.3. Solitamente si sente parlare di dignità della vita, ma, ad essere precisi, è meglio parlare di dignità dell'uomo, cioè la dignità è una proprietà dell'uomo, più che della vita dell'uomo; così, la vita umana ha una dignità perché è la vita di un uomo, il quale è in sé dotato di dignità. Del resto, non esiste la vita, ma esiste in concreto solo il vivente, in questo caso appartenente alla specie umana.
    9.4. Alcuni bioeticisti formulano l'equazione dignità = esercizio della libertà-autodeterminazione (che in realtà sono ben diverse: il discorso sarebbe lungo). Ma, allora, il suicidio e l'eutanasia comportano l'eliminazione di quel bene preziosissimo che è la libertà. Il suicidio e l'eutanasia possono essere atti liberi, ma una libertà che si annulla è in contraddizione con se stessa: uccidersi o chiedere che un altro ci uccida è il più radicale abbandono della sovranità su noi stessi.
    9.5. Obiezione: la dignità dell'uomo risiede nell'esercizio effettivo di atti liberi e di autocoscienza, perciò chi non è autocosciente e libero non è un essere dotato di dignità umana e lo si può uccidere, senza calpestare la sua dignità, che egli ha già perso. Risposta: partendo da questa premessa diventerebbe lecito uccidere qualunque soggetto che non eserciti attualmente l'autocoscienza e la libertà: i malati di Alzhaimer, i neonati (come dice coerentemente il bioeticista Engelhardt), i dormienti e gli uomini sotto anestesia. Il che ci fa capire che la premessa è gravida di gravissime conseguenze.
    9.6. Ancora, l'equazione dignità = libertà-autodeterminazione discende da una (più o meno consapevole) valutazione negativa della dipendenza, che trascura il fatto che la cifra della condizione umana è proprio la dipendenza da altri. Un neonato è in tutto dipendente dai suoi genitori, ma non è per questo privo di dignità.
    9.7. Qualcuno dice che la dignità umana dipende dal giudizio che ciascuno formula: «io sono dotato di dignità solo se e fintanto che giudico-reputo di esserlo». Ma, se questo fosse vero, allora, di nuovo, bisognerebbe concludere che i malati di Alzhaimer, i neonati, i dormienti e gli uomini sotto anestesia, non sono dotati di dignità poiché non formulano questo giudizio: quindi li si potrebbe uccidere.
    Inoltre, bisognerebbe stabilire un criterio per individuare quali sono quei soggetti il cui giudizio sulla propria dignità è lucido ed autorevole. Per esempio, il giudizio dei preadolescenti è sufficientemente lucido ed autorevole? E quello dei bambini? E a partire da quale età? E quello dei malati? Un simile criterio non potrebbe che essere arbitrario.
    9.8. C'è anche chi dice: «ha dignità intangibile anche chi attualmente non è in grado di esercitare atti autocoscienti, ma ha la potenzialità di esercitarli entro un po' di tempo». Ma questa definizione fa insorgere un problema: entro quanto tempo?
    Qualche ora come nel caso del dormiente e dell'uomo sotto anestesia? Qualche giorno come nel caso di chi è temporaneamente in coma? Qualche anno come nel caso del bambino piccolo? Qualche anno in più come nel caso del neonato?
    Il criterio è nuovamente arbitrario.
    Del resto, ammesso e non concesso che la dignità risieda nell'autocoscienza o nella potenzialità di riprenderla (invece che nel mero esserci di un uomo) di nessun uomo, nemmeno se è in stato «vegetativo», si può essere certi che non riprenderà coscienza [cfr. l'articolo di P. Gulisano in questo dossier]. Terry Wallis si è «risvegliato» dopo 19 anni.
    Anche Jan Grzebski si è risvegliato dopo 19 anni: i medici gli avevano dato solo due o tre anni di vita, mentre solo la moglie Gertruda aveva creduto nel suo risveglio. Ed ha avuto ragione.
    9.9. Questo significa che la dignità dell'uomo è indipendente dalle condizioni di vita in cui egli versa, dalla qualità della sua vita: in nessuna condizione (anche, per es., in stato cosiddetto «vegetativo») l'uomo perde la sua dignità, che gli inerisce. L'uomo ha un'incommensurabile dignità-valore, dunque il suicidio e l'eutanasia sono gravemente malvagi perché distruggono la dignità umana.
    9.10. Ad ogni modo, se nella società non si raggiunge una concezione condivisa su chi è dotato di dignità, per precauzione, data la posta in gioco, lo Stato non deve correre il rischio di uccidere o lasciare che venga ucciso chi potrebbe possedere tale dignità.
    9.11. Inoltre, qualsiasi altro criterio (per discernere fra chi è dotato di dignità inviolabile e chi non lo è) diverso dalla mera appartenenza alla specie umana, comporta l'attribuzione, ad alcuni esseri appartenenti alla specie umana, di un potere di giudicare sul diritto alla vita di altri esseri appartenenti alla specie umana (embrioni umani, neonati, malati in stato «vegetativo», ecc.), che vengono discriminati, dato che non possono prendere parte alla discussione (C. Caffara, www.zenit.org/article-16248?I=italian ).





    10. Lo Stato dev'essere neutrale?
    Per qualcuno lo Stato deve lasciare a ciascuno la possibilità di scegliere se ricevere o no l'eutanasia, perché deve restare neutrale rispetto al bene e non prendere posizione.
    In realtà, se legalizza e/o pratica l'eutanasia, lo Stato non è veramente neutrale, perché assume invece una determinata concezione antropologica: quella secondo cui la persona umana può essere uccisa anche in casi diversi dalla legittima difesa e dalla guerra.
    Del resto, lo Stato cessa di essere neutrale non appena legifera su qualcosa.
    Infatti, legiferare significa presupporre che sia un bene il disciplinare i rapporti tra gli uomini. E, per esempio, la legge che vieta l'omicidio presuppone che sia un bene la tutela della vita delle persone.


    BIBLIOGRAFIA



    Bemard Ars - Etienne Montero, Eutanasia. Sofferenza & dignità al crepuscolo della vita, Ares, 2004.
    Tommaso Scandroglio, L'eutanasia e l'ultima cena, in Studi cattolici, 557/58 (2007), pp. 526-527.

    Giacomo SAMEK LODOVICI
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    Testamento biologico? No grazie


    Nessuna persona in salute può prevedere che cosa si prova quando si è colpiti da una malattia incurabile, né i progressi scientifici e medici nella cura. E potrebbe cambiare idea su come essere trattato, senza però essere più in grado di dirlo.


    Che cos'è il testamento biologico?
    Il testamento biologico è un documento redatto o un modulo sottoscritto da un qualsiasi cittadino con il quale egli, oggi sano, esprime la sua volontà circa i trattamenti sanitari e circa il suo morire, per il tempo in cui non sarà in grado di intendere e di volere.
    Il testamento biologico - sostengono alcuni - sarebbe un ottimo strumento per escludere l'accanimento diagnostico-terapeutico. Ma l'accanimento è concordemente condannato: il Codice di deontologia medica contempla già tra i doveri del medico l'evitare l'accanimento. Perciò sotto questo profilo il testamento biologico è perfettamente inutile.

    Testamento biologico e consenso informato
    Il testamento biologico viene salutato come la più alta espressione della volontà del paziente, come il traguardo del consenso informato. Il cittadino, quando dovesse redigere il testamento biologico, sarebbe costretto ad immaginare una situazione futura sconosciuta, dovrebbe rispondere a una domanda simile: se mi trovassi attaccato ad un respiratore o immobilizzato in un reparto di rianimazione, che cosa chiederei al medico? Davanti ad un'ipotesi simile tutti proviamo paura ed orrore e ciò condiziona potentemente l'espressione della volontà. L'estensore del testamento subirebbe così una coartazione della volontà ed esprimerebbe le proprie disposizioni senza conoscerne con precisione l'oggetto. Il testamento biologico non può essere giustificato sulla base del consenso informato, perché il consenso deve essere espresso quando il medico comunica la diagnosi e propone la terapia e l'informazione deve riguardare un quadro clinico concreto e non ipotetico.

    Tre obiezioni
    Inoltre, la prudenza che nasce dall'esperienza della vita concreta può fare tre obiezioni.
    1) Nessuna persona sana e nel pieno possesso delle facoltà mentali può sapere che cosa si prova quando si è colpiti da una malattia incurabile e si è entrati nella fase avanzata di essa. Chi scrive il testamento è estraneo al vissuto della malattia. Perciò invocare il principio del consenso informato è fuorviante.
    2) Nessuno può prevedere con certezza quali saranno i progressi scientifici e medici nella diagnosi e nella cura di una malattia. Terapie oggi penose, domani, grazie ai progressi tecnici, potrebbero essere praticate con minori oneri. Perciò il testamento reso oggi per un futuro prossimo o remoto potrebbe diventare impreciso o fuori luogo.
    3) Non è detto che le volontà che io oggi esprimo corrispondano esattamente a ciò che io desidererò quando sarò colpito da una malattia grave e sarò incapace di esprimere i miei desideri. Potrei aver cambiato idea e non aver avuto il tempo di manifestarlo. Posti tutti questi dubbi circa un bene fondamentale, com'è quello della vita, è doveroso astenersi da qualsiasi atto che possa pregiudicarla in forza del principio di precauzione. In altri termini, è vero che il medico non può essere certo che il malato abbia cambiato idea: potrebbe averi a cambiata, il che è la cosa più probabile, però può anche non averla cambiata. Ma se è in dubbio sull'autentica volontà attuale del soggetto, non deve correre il rischio di non somministrare delle terapie proporzionate senza le quali il malato muore.

    Testamento biologico e libertà del paziente di decidere in autonomia
    Il testamento biologico è presentato dai suoi fautori come l'espressione più alta dell'autonomia del paziente: il malato sarebbe finalmente protagonista della propria vita, potrebbe decidere con la massima autonomia senza subire angherie dalla medicina moderna ed iniziative gratuite dal medico.
    Il modello medico-paziente che sottostà al testamento biologico è quello contrattualistico che suppone una parità fra medico e paziente. Tale modello, però, altera l'identità delle due figure. Il medico, da professionista che agisce nell'interesse ed in vista della salute del paziente, è ridotto ad essere un esecutore delle volontà del paziente: il medico sarà anche abilissimo tecnicamente, ma, una volta introdotto il testamento biologico, non potrà più prendere alcuna decisione e, se le disposizioni del testamento biologico fossero vincolanti, non avrebbe più la facoltà di valutare il quadro clinico ed il carattere proporzionato o meno delle terapie. Il paziente diventerebbe un puro cliente che potrà chiedere tutto al medico. Il testamento riconoscerebbe al paziente anche la capacità di prevedere a tavolino un astratto quadro clinico e fissare dei limiti oltre i quali ci sarebbe accanimento.
    In realtà, la parità tra i due contraenti non esiste, perché il medico «sa», mentre il paziente, anche quando è perfettamente informato sulle sue condizioni e sulle possibilità terapeutiche, non è libero di sfuggire alla malattia e spesso è incapace di un confronto obiettivo con istanze morali e scientifiche. Il rapporto medico-paziente è un rapporto strutturalmente asimmetrico. Il medico, se non vuole essere ridotto a semplice erogatore di servizi, deve conservare la sua autonomia professionale e la sua dignità etica per cui, avendo di mira il bene e la vita del paziente, valuterà sempre se le richieste del paziente o il trattamento terapeutico adottato siano adeguati al caso concreto. È decisivo che il medico si faccia carico dello stato complessivo del paziente suo interlocutore, creando tutte le condizioni perchè il paziente, mediante il dialogo, l'informazione e l'incoraggiamento, possa orientarsi verso la scelta migliore per la sua persona. Inoltre, il quadro clinico è qualcosa di estremamente mutevole e ciò incide sulla necessità di valutare in tempo reale e non astrattamente il grado di proporzione tra terapia ed effetti ottenuti o sperabili.
    Perciò, il testamento biologico, mentre sembra esaltare la libera scelta del malato, in realtà ne lede gravemente la dignità, perché il valore di un individuo umano, per quanto malato, non dipende dalla più o meno normale vita di relazione, che è in grado di vivere. Il testamento biologico carica il futuro paziente di una responsabilità sproporzionata, quella di prendere adesso una decisione immaginando una situazione futura del tutto sconosciuta.

    Testamento biologico e testamento patrimoniale
    Inoltre, dicono alcuni, come lo Stato riconosce efficacia giuridica al testamento con cui un cittadino dispone dei suoi beni patrimoniali, così è necessaria una legge dello Stato che dia efficacia giuridica alla volontà del cittadino in ordine alla fase finale della sua vita. In questo modo il testamento biologico renderebbe disponibile il bene della vita fisica.
    Ora, le moderne società civili si fondano sul principio dell'indisponibilità della vita fisica, cioè del mio esistere. La vita fisica è indisponibile:
    1) perché il mio esistere è la condizione per poter compiere atti e gesti di libertà. Perciò è ovvio ricordare che, se disponessi del mio esistere privandomi di esso, mi precluderei qualsiasi esercizio futuro della libertà;
    2) perché io, pur godendo dell'esistenza, sperimento di non esser venuto all'esistenza di mia iniziativa, ma piuttosto che l'ho ricevuta e che mi potrebbe essere tolta in qualsiasi istante, sebbene la volontà mia o altrui si opponga.
    lo non sono la causa efficiente del mio esserci. Perciò devo ammettere di dipendere nell'essere e che il mio esistere è un bene che non mi sono dato. Ora, mentre posso disporre di quei beni alla cui esistenza io concorro come causa efficiente (come ad esempio la proprietà di oggetti o le prestazioni professionali), non posso eticamente disporre di quei beni di cui non sono causa.
    Ed è proprio questo il caso del mio esserci. Sul principio «l'esistenza fisica umana è un bene indisponibile>, si è costruita la civiltà umana e la pacifica convivenza. Da esso si è sviluppata la convinzione della pari dignità e dell'uguaglianza tra gli esseri umani, perché dire che l'esistenza fisica umana è un bene indisponibile significa dire che essa non ha un prezzo, non è misurabile in termini monetari, ma ha un valore mai riducibile in termini quantitativi, ha appunto una dignità eccelsa.

    Testamento biologico e abbandono del malato
    Chi redige il testamento si espone - forse senza saperlo - al rischio di morire di fame e di sete rinunciando all'idratazione ed all'alimentazione mediante fleboclisi o sondino naso-gastrico. Le motivazioni addotte a favore del testamento biologico giocano su un'ambiguità: per evitare l'accanimento terapeutico si propone il testamento biologico, cioè la generica e vaga rinuncia a terapie. Tuttavia, mentre è moralmente lecito, anzi doveroso, sospendere tutti quegli atti diagnostici o/e terapeutici che si configurano come accanimento ostinato, non è mai lecito omettere di idratare e alimentare, perché idratare ed alimentare non sono terapie. Se lo fossero, allora tutte le volte che ci sediamo a tavola ci sottoporremo a una terapia? Il testamento biologico nella sua genericità legittima l'abbandono terapeutico di molti malati che grazie alle moderne tecnologie potrebbero continuare a vivere e ad esprimere la loro personalità. Attenua la solidarietà umana e il vincolo morale e professionale che lega il medico al bene della persona malata. Spinge verso l'eutanasia volontaria e preventiva.

    Uno scudo per i medici
    L'effetto principale del testamento di vita consiste nel mettere al riparo i medici dal pericolo di azioni giudiziarie in sede civile da parte dei parenti insoddisfatti per un trattamento in fase cronica o terminale. È in altre parole una specie di ombrello difensivo per i medici e per tutto il mondo che ruota intorno all'atto medico e alle responsabilità ad esso collegate. Con questo «trucco» legale, infatti, il medico si libera della responsabilità e scarica ogni decisione sulla volontà del paziente. Così, le assicurazioni degli ospedali e delle aziende sanitarie che tutelano l'operato dei medici possono stare finalmente più tranquille. Per uscire dalla logica del testamento biologico è necessario superare il sospetto che il medico non agisca nell'interesse del paziente e promuovere il modello dell'alleanza terapeutica (cfr. il mio articolo sul Timone di gennaio) e l'umanizzazione del rapporto medico-paziente.


    RICORDA



    Il «signor Smith [è un] cardiopatico, giunto in ospedale per dolori al petto a cui viene diagnosticato un infarto. Su richiesta del medico di turno, il paziente mostra una copia del proprio testamento biologico. [...] è un codice DNR (Do Not Resuscitate), un soggetto da non rianimare. [...] Alle 4 del mattino il sig. Smith si lamenta del dolore sempre più forte, suda e chiama l'infermiera col campanello. Un cardiologo che si trova a passare, accorgendosi dal monitor che il paziente è in arresto cardiaco, si precipita nella stanza per tentare di defibrillarlo, ma viene fermato dall'infermiera perché si tratta di un codice DNR. [...] Alla fine il paziente è dichiarato morto. Si tratta di un chiaro caso in cui quanto scritto nel testamento biologico era in contraddizione con quanto richiesto nel momento della vera malattia. Quel premere il campanello in cerca di soccorso era una chiara sconfessione di quanto scritto sul testamento biologico [...]. Probabilmente il sig. Smith non si rendeva conto che sottoscrivendo il testamento biologico stava firmando la propria condanna a morte. Casi come questo non sono una tragica eccezione. [...] Il testamento biologico può quindi rappresentare un fattore di rischio per malpractice clinica. Dopo soltanto 4 mesi un terzo dei pazienti affetti da Aids cambia idea e vuole ricevere la rianimazione in caso di arresto cardiaco».
    (Renzo Puccetti, Se il testamento biologico apre alla cattiva pratica medica, Newsletter di Scienza & Vita, n° 18).


    BIBLIOGRAFIA



    Carlo Valerlo Bellieni-Marco Maltoni (a cura di), La morte dell'eutanasia. I medici difendono la vita, SEF, 2006.
    Alessandro Pertosa, Scelgo di morire? Eutanasia, accanimento terapeutico, eubiosia, Edizioni Studio Domenicano, 2006.
    Carlo Casini - Marina Casini - Maria Luisa Di Pietro, Testamento biologico, SEF, 2007.

    P. Giorgio Maria CARBONE
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    Cure palliative: straordinaria efficacia


    La richiesta di eutanasia è collegata con l’atteggiamento dell’équipe curante. Mentre i pazienti olandesi, assistiti in un clima favorevole all’eutanasia, la chiedono nel 15% dei casi, belle esperienze di cure palliative vedono precipitare tale richiesta quasi a zero.
    Intervista a Marco Maltoni.





    Prima Welby, poi Eluana... Già ai tempi dei referendum sul divorzio e sull'aborto, l'ondata dei casi clamorosi (allora si diceva «casi limite») tende a far passare nell'opinione pubblica il «sì» ad una scelta moralmente discutibile. Adesso tocca all'eutanasia e il dottor Marco Maltoni ha accettato la sfida. Primario dell'Unità operativa di Cure palliative a Forlì, già consigliere nazionale della Società italiana di Cure palliative, 51 anni, tre figli, co-autore del libro La morte dell'eutanasia. I medici difendono la vita, non ha certo rinunciato a far sentire la sua voce di esperto controcorrente anche nel caldo delle polemiche sulla cosiddetta «morte dolce».




    Dottor Maltoni, effettivamente è difficile resistere all'assalto emotivo che oggi circonda i «casi limite» alla Eluana. lei, da esperto, come farebbe?
    «L'emozione è spesso nemica di una vera affezione, solida, tenace, duratura. È importante il lavoro culturale per diffondere una possibilità d'approccio positivo alla malattia ed alla disabilità.
    Ma è ancora più essenziale raccontare le esperienze, tutte le migliaia di situazioni analoghe a Welby ed Eluana in cui però il paziente e la famiglia e la società civile dimostrano che è possibile vivere anche in presenza di malattia grave, a patto di essere sostenuti e consolati. Invece i mass media privilegiano le storie di disperazione, non quelle di speranza; quindi le prime godono di più audience delle seconde. E poi spesso si sente dire: "La speranza è possibile per alcuni, ma per chi non ci riesce dev'essere possibile anche la via della morte procurata". In questo modo passa l'idea che qualunque scelta è legittima, non si entra più nel merito per giudicare se una decisione è "oggettivamente" più umana e un'altra meno; il "valore" diventa la possibilità di scelta in sé».




    Ma stiamo davvero assistendo ad una campagna d'opinione a favore dell'eutanasia? E - se sì - quanto si deve a motivi cinicamente economici ("Il malato meno costoso è il malato morto») e quanto a motivazioni ideologiche?
    «Mi pare evidente che alcuni circoli culturali stanno promuovendo una campagna di autodeterminazione esasperata, che giunge in alcune punte alla valorizzazione del suicidio assistito e dell'eutanasia. La motivazione economica, sia pure in tempo di risorse limitate, in Italia forse non verrà mai posta esplicitamente in gioco, in quanto troppo poco "nobile". Credo che le ragioni principali siano da far risalire a un'ideologia della "libertà" personale che spesso fa a pugni con la realtà ed a motivi falsamente pietistici basati sulla qualità di vita, secondo i quali un'esistenza malata è peggio di un'assenza di vita».




    Qualcuno - anche in ambito cattolico - crede che una legge sui cosiddetti "testamenti biologici» potrebbe mettere ordine in una materia obiettivamente rischiosa. lei invece si è sempre detto contrario; perché?
    «Il testamento biologico estremizza ed assolutizza il valore dell'autonomia del paziente, quando numerosi studi hanno evidenziato che tale autonomia è influenzata da variabili interne ed esterne. Il testamento, ad esempio, risente di una distanza psicologica e temporale dal momento in cui viene steso a quello in cui dovrebbe essere posto in atto, per cui non può che essere generico, a meno di non farlo stendere con la malattia già in atto e relativamente a quel male (pianificazione sanitaria anticipata), con un maggior rischio - però - di pressione sul malato fragile. Il testamento biologico, inoltre, considera ogni malato come una realtà isolata dal resto dei rapporti socio-assistenziali e familiari o amicali, di cui invece la vita umana è caratteristicamente costituita, e promuove un concetto di vita meritevole di essere vissuta non in quanto essa è umana in sé, ma solo se si mantengono le capacità di esprimere determinate funzioni e qualità. Ancora: il testamento favorisce una visione contrattualistica della medicina, quasi che gli interessi del paziente e quelli del suo medico curante siano in contrasto tra loro, senza contare che il fatto di essere vincolante per il medico condurrebbe a deresponsabilizzarlo. Infine, se le indicazioni presenti nel testamento biologico prevedessero pratiche in scienza e coscienza inaccettabili per il medico e disposizioni che disconoscono il principio dell'indisponibilità della vita umana, il documento costituirebbe il cavallo di Troia per l'ingresso dell'eutanasia nel nostro ordinamento».




    Esiste realisticamente a suo parere - oggi, in Italia - un pericolo di accanimento terapeutico? E quali sono, secondo lei, i paletti da non superare in questo campo?
    «Raccomandazioni contro l'accanimento terapeutico ci sono già nei vari codici deontologici; ciò che si vuole aggiungere è la mentalità astensionista del "tanto meno, tanto meglio", che favorisce il passaggio verso forme di abbandono terapeutico. Esiste già infatti un "estremismo palliativo", in base al quale un medico è tanto più bravo ad affrontare le cosiddette scelte di fine vita quante più terapie interrompe e quante meno cure prosegue, per reazione ad una medicina troppo tecnologica ed aggressiva. Un esempio che riguarda il mio settore specifico, l'oncologia, è rappresentato dall'elevata percentuale di chemioterapie iniziate negli ultimi 15-30 giorni di vita di un paziente: per un medico è sempre difficile, psicologicamente, dire "basta, non riesco più a combattere la malattia, ora devo dedicarmi a sostenere il paziente", e ciò rappresenta un rischio per la proporzionalità delle cure.
    Quest'atteggiamento non giustifica però quello opposto, ovvero l'interruzione ideologica pregiudiziale delle terapie. Il punto fondamentale rimane la relazione di cura, in cui medici e pazienti e familiari valutano insieme l'appropriatezza delle cure in quella ben precisa e singola situazione. Le "scelte di fine vita" vengono comunque oggi considerate da tanti operatori "politicamente corretti" esclusivamente come scelte di astensione, a rischio di abbandono più che d'accanimento terapeutico».




    Si dice che l'uomo non ha tanto paura di morire, bensì del dolore che accompagna la morte. Nella sua esperienza ci sono state persone che hanno chiesto l'eutanasia? Quanti sono stati coloro che hanno smesso di chiederla se assistiti e confortati adeguatamente?
    «Numerosi studi condotti in ambito palliativo hanno evidenziato come la richiesta di eutanasia è statisticamente collegata con l'atteggiamento e la disposizione dell'équipe curante. Mentre pazienti oncologici olandesi assistiti in un clima culturale, anche medico, favorevole all'eutanasia chiedono tale procedura in circa il 15% dei casi, belle esperienze di cure palliative vedono precipitare tale richiesta a una percentuale di pazienti prossima allo zero, in alcune situazioni limite di particolare sofferenza psicologica e relazionale. Anche nella mia esperienza, dopo anni e anni di attività prima a domicilio, poi in due hospice dedicati a pazienti oncologici spesso in fase avanzatissima di malattia, solo uno mi ha fatto richiesta persistente di morte procurata, richiesta che abbiamo affrontato insieme col ricorso a una sedazione controllata. Quindi si può affermare che cure palliative ben condotte, che affrontino in modo efficace i sintomi fisici e le sindromi psicologiche (ansia, depressione, disperazione) legate alle fasi avanzate delle malattie inguaribili, consentono la riduzione al minimo delle richieste di eutanasia. È vero che anche le migliori cure palliative non possono ridurre a zero la domanda di eutanasia, però possono svolgere una funzione importante per consentire a operatori e familiari di stare di fronte a quel tanto di sofferenza ineliminabile per il fatto di essere uomini, limitati e mortali. È a quel punto che si deve decidere se accogliere il dolore e condividere la domanda del malato, o se fare un passo indietro e giudicare quella vita sofferente indegna d'essere vissuta».




    A volte la richiesta di eutanasia sembra più una protesta contro la solitudine, che dunque richiede come risposta l'amore e non la morte. È d'accordo?
    «Credo che una richiesta di morte sia sempre un grido estremo, che testimonia una disperazione, una solitudine, una perdita di significato. Se questa angoscia globale incontra una conferma ideologica, il paziente riceverà una riprova che allora è proprio meglio farla finita. Ma se il suo bisogno viene accolto dentro un rapporto reale, allora il suo grido si può tramutare in una domanda diversa: "Vegliate con me", la domanda di Gesù nell'Orto degli ulivi con la quale Cicely Saunders, fondatrice del moderno movimento Hospice, ha intitolato un suo bel libro. E anche pazienti che hanno richiesto la morte assistita dal medico hanno potuto cambiare idea, come è stato descritto e raccontato».

    Roberto BERETTA
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    L'accanimento terapeutico


    I criteri per riconoscere l'accanimento terapeutico, che è il prodotto di una scienza che si crede onnipotente. Ma il vero medico sa qual è Il suo dovere: combattere sempre la malattia, rispettando la dignità di ogni uomo.


    La morte è scandalo e sconfitta, tutto nell'uomo si ribella ad essa; e tuttavia il morire fa parte del nostro destino in maniera ineluttabile. Ogni minuto scandito dall'orologio ci avvicina all'evento, certo ma imprevedibile, della nostra morte. La malattia, il decadimento fisico, la vecchiaia, sono segni sgradevoli che preparano però l'uomo al momento del distacco da questo mondo. Quindi, si potrebbe dire che alla morte non ci si deve ribellare, né pensare che esistano strumenti umani per sfuggire ad essa. La modernità ha, in tal senso, prodotto delle false soluzioni allo scacco della morte: in particolare, il positivismo scientista ha instillato nella cultura contemporanea l'idea che la medicina sia la soluzione per sconfiggere la signora vestita di nero. Questo equivoco attribuisce alla medicina un potere pressoché divino, consistente nel decidere - talvolta insieme al paziente, ma non sempre - della vita e della morte dell'uomo.




    Il compito della medicina
    La medicina ha invece il compito - il dovere morale e giuridico - di lottare incessante mente e senza risparmiarsi contro ogni malattia. Questo combattimento fra medico e malattia ha però un esito finale scontato, segnato dalla sconfitta: nell'ultimo atto della commedia della vita - anche dopo quelle molte vittorie parziali che sono le guarigioni - ogni paziente muore. Se lo scopo essenziale della medicina fosse guarire i pazienti, se ne dovrebbe dedurre che essa insegue uno sforzo immane e irraggiungibile. Invece, l'essenza della medicina è la cura. Il prendersi cura del paziente è sempre possibile. Per questo sarebbe meglio dire che esistono «pazienti inguaribili», mentre nessun paziente è «incurabile».
    Come si vede da queste riflessioni, la modernità oscilla fra due errori opposti e terribili:
    a. presumere che la medicina (in quanto scienza esatta, empirica) sia onnipotente, possa vincere ogni ostacolo e sia «fonte di salvezza»; e che quindi essa sia l'unica vera risposta al bisogno di salvezza dell'uomo;
    b. ritenere che la medicina, quando si rende conto di non poter guarire il paziente, debba fermarsi, lasciando che «la natura faccia il suo corso»; cioè facendo intenzionalmente morire il malato, astenendosi dal curare o somministrandogli sostanze letali. Le due posizioni si sostengono a vicenda e diventano sempre più forti nella società in cui viviamo, nella quale il volontarismo - cioè l'autodeterminazione arbitraria delle persone - diventa l'unica bussola dell'agire umano. Producendo questo scenario schizofrenico: i familiari si aspettano che il medico guarisca sempre il loro congiunto, e se il malato muore sono pronti a trascinare in giudizio il «sacerdote in camice bianco» che ha fallito la sua missione. D'altro lato, di fronte al malato in coma o in stato vegetativo, i parenti chiedono alla medicina di porre fine alla vita. Cioè, di uccidere.




    Cure proporzionate e cure ordinarie
    La Chiesa offre alcuni criteri ragionevoli per distinguere l'omicidio - tale è ogni azione diretta a provocare la morte del malato - da un uso sensato e moralmente buono dei mezzi terapeutici.
    a. Il paziente non ha mai il diritto di procurarsi o di farsi procurare la morte.
    b. Il paziente ha diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana.
    c. Ognuno ha il dovere di curarsi e farsi curare; questo significa che i medici ed i loro collaboratori dovranno somministrare i rimedi ritenuti utili e necessari. È evidente, ad esempio, che garantire Cibo e acqua [alimentazione e idratazione non sono terapie, cfr. Samek Lodovici in questo dossier] significa fornire ciò che è sempre utile e necessario. L'intervento medico ha senso solo quando non nuoce (principio già elaborato da Ippocrate) e solo se produce qualche effetto benefico significativo; in caso contrario, esso non migliora il quadro clinico del paziente. L'atto medico è particolarmente doveroso quando da esso dipende la vita del paziente, e una sua omissione potrebbe provocare come conseguenza diretta la morte.
    d. Quando un mezzo terapeutico è straordinario, non è obbligatorio farvi ricorso.
    e. Poiché la categoria della straordinarietà è oggi più difficile da identificare, il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1980 preferisce distinguere «mezzi proporzionati" e «mezzi sproporzionati». La valutazione deve avvenire «al letto del paziente», cioè tenendo conto del quadro clinico, della natura della terapia, dei rischi che essa comporta, dei costi. Una cura è proporzionata quando conserva tutte le caratteristiche dell'atto medico, cioè quando è attuata dal medico allo scopo di curare il paziente, nella ragionevole speranza che le terapie instaurate servano a migliorare la sua condizione, oppure consentano di evitare peggioramenti. Poiché ogni atto medico ha dei «costi» - ad esempio effetti collaterali non voluti, sofferenza, gravosità psichica per il paziente, grado di incertezza negli esiti - la decisione se percorrere o meno una strada terapeutica dipende dalla prudente valutazione del rapporto fra i benefici e gli effetti negativi attesi. Il rischio elevato connesso ad un intervento chirurgico, ad esempio, può indurre a non operare un paziente che ha un quadro clinico compromesso. Ma se l'alternativa è fra la morte certa ed un alto rischio, si percorrerà l'unica strada che dà qualche speranza, seppure residua.
    f. È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina mette a disposizione. Quando una cura presenta pericoli o è troppo onerosa, il suo rifiuto non equivale al suicidio.
    g. L'interruzione di una terapia è consentita quando i suoi risultati siano deludenti - cioè quando nel caso concreto non abbia prodotto gli effetti sperati - e quando appaiano sproporzionati.
    h. Quando la morte del paziente sia imminente, si può decidere di rinunciare a trattamenti che avrebbero la sola conseguenza di un prolungamento precario e penoso della vita. Ma anche in tal caso le cure normali dovranno essere sempre garantite al malato.




    Eutanasia e accanimento terapeutico
    L'accanimento terapeutico consiste «nell'uso di mezzi particolarmente sfibranti e pesanti per il malato, condannandolo di fatto a un'agonia prolungata artificialmente» (Giovanni Paolo Il,1992). Ma in concreto, come si può distinguere il rifiuto dell'accanimento terapeutico dall'eutanasia? Occorre avere riguardo sia ad elementi soggettivi che ad elementi oggettivi. Dal primo punto di vista, è fondamentale l'intenzione di chi compie l'atto:
    a. se una terapia viene sospesa perché ritenuta del tutto inutile per il paziente, proseguendo ogni altra cura necessaria e vitale, non siamo di fronte a un caso di eutanasia;
    se un farmaco viene somministrato sperando che giovi, non siamo di fronte all'accanimento terapeutico;
    b. se invece l'interruzione è attuata perché così il paziente morirà, allora si deve parlare di eutanasia; se le cure proseguono sapendo che sono del tutto inutili al paziente, c'è accanimento.
    Sul piano oggettivo, vi sono atti che sono intrinsecamente eutanasici - ad esempio somministrare un veleno o smettere di nutrire - e atti che sono ambivalenti - ad esempio somministrare analgesici in dosi massicce - e la cui malvagità dipende dall'intenzione del medico.




    Che cosa non è l'accanimento terapeutico
    Detto tutto questo, deve essere però chiaro che il concetto di "accanimento terapeutico" va maneggiato con molta attenzione.
    In un certo senso, la storia della medicina e dei suoi progressi è il frutto della benedetta ostinazione di generazioni di medici che, di fronte a malattie inguaribili, hanno lottato senza tregua. Se i medici dell'800 avessero optato per l'eutanasia o per «il lasciar fare alla natura», oggi molte malattie non sarebbero state sconfitte e non vivremmo così a lungo. Occorre quindi molta prudenza prima di affermare che una certa condotta medica è «accanimento terapeutico». Del resto, se il medico è «ippocratico», egli agirà sempre secondo scienza e coscienza per curare, alleviare le sofferenze e mai volendo la morte del paziente.





    RICORDA

    «C'è una differenza cruciale tra la sospensione delle terapie nel caso del rifiuto dell'accanimento terapeutico e la sospensione delle terapie nel caso dell'eutanasia, pur essendo identico il risultato finale, che è la morte del malato.
    Consideriamo il caso in cui il rifiuto dell'accanimento terapeutico voglia eliminare il dolore di un malato. lo sospendo le terapie in se stesse dolorose, per ottenere la cessazione-alleviamento della sofferenza e non voglio in alcun modo la morte del malato. Non la voglio né come fine, né come mezzo per far cessare-alleviare la sofferenza, anche se la provoco (e so bene di provocarla): la produco come conseguenza collaterale non voluta (similmente, se prendo una medicina conoscendo gli effetti collaterali negativi che essa provoca in me, voglio la guarigione da una malattia e non questi effetti collaterali negativi). w Invece, l'azione che compio quando voglio (anche a malincuore) la morte del malato come mezzo per ottenere la cessazione delle sue sofferenze è diversa ed è eutanasica. Infatti, In questo secondo caso, la morte è appunto voluta, sebbene solo come mezzo; nel primo caso, invece, non è per nulla voluta».
    (Giacomo Samek Lodovici, Sarebbe una vera eutanasia, «Avvenire», 16 luglio 2008, p. 11).


    BIBLIOGRAFIA



    Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull'eutanasia, 1980.
    Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, Carta degli operatori sanitari, 1995.

    Mario PALMARO
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    I «risvegli»: sempre possibili


    La possibilità di una ripresa da uno stato vegetativo non può mai essere esclusa. Terry Wallis si è ripreso dopo 19 anni. E Salvatore Crisafulli sentiva tutto quello che veniva detto intorno a lui, perfettamente consapevole del suo stato.







    Un risveglio dopo diciannove anni: è quanto accaduto a Terry Wallis, un ragazzo statunitense entrato in coma nel luglio del 1984, che, a distanza di diciannove anni, si è rimesso in contatto con la realtà ed ha ricominciato a parlare.
    Un altro risveglio: il caso di Salvatore Crisafulli. È l'11 settembre 2003 quando Crisafulli, 38enne, rimane vittima di un gravissimo incidente stradale. Salvatore entrò in coma. Dopo mesi di reparto di rianimazione, gli venne dichiarato lo stato vegetativo persistente. In seguito i familiari si accorsero che Salvatore veniva lasciato quasi sempre solo. Decisero allora di curarlo presso l'abitazione del fratello. La quasi totalità dei medici riteneva impossibile un recupero. La svolta avviene Il 5 maggio 2005: Salvatore viene ricoverato ad Arezzo, dove inizia una vera cura riabilitativa, poi l'uscita dal coma: viene accertato senza ombra di dubbio che Salvatore è cosciente, in grado di capire. Incomincia una ripresa comunicativa difficoltosa, ma Salvatore con grande difficoltà inizia a raccontare e a ricordare momenti allucinanti della sua storia, quando sentiva tutto quello che veniva detto intorno a lui, impossibilitato ad entrare in relazione col mondo esterno, ma perfettamente consapevole del suo stato (cfr. www.salvatorecrisafulli.it ).
    Insomma, le speranze di risveglio ci sono [cfr. anche il recentissimo caso di Greta, su cui si veda l'articolo di F. Lozito in bibliografia]. Ed è in nome di queste speranze che è nata recentemente a Bologna la prima «Casa dei Risvegli», dedicata a Luca De Nigris, un ragazzo di quindici anni che, grazie ai suoi familiari che non si arresero, uscì dal sonno profondo in cui era caduto.
    Il coma è una condizione di perdita della coscienza. Nei casi meno gravi, il malato riguadagna lo stato di coscienza. In altri casi, invece, passa ad uno stato cosiddetto vegetativo persistente. Questa fase di passaggio è segnata dalla riapertura degli occhi. L'individuo è in grado di mantenere tutte le funzioni vitali dell'organismo (respirazione, controllo della pressione, regolazione della temperatura corporea ecc.) cosicché continua a respirare e ad aprire gli occhi. Talvolta i malati in questo stato hanno movimenti spontanei e gli occhi possono muoversi in risposta a stimoli esterni; possono persino ridere o piangere. Lo stato vegetativo può rappresentare una fase transitoria che a volte è seguita dalla ripresa della coscienza, ma talora esso si protrae. Si parla di stato vegetativo persistente quando esso dura oltre un mese, di stato vegetativo permanente a 12 mesi dall'incidente (in Italia 1500 persone sono in queste condizioni). Trascorso tale lasso di tempo, la probabilità di una ripresa delle funzioni superiori è bassa, sebbene non nulla.
    Questa condizione è una realtà non del tutto esplorata e conosciuta. Proprio per questo c'è molto spazio ancora per lo sviluppo di nuove terapie, di nuove possibilità di intervento che consentano ai pazienti il «risveglio», ossia il ritorno ad una vita di relazione. Sono e saranno sempre più possibili terapie all'avanguardia che potranno dare rinnovate speranze, terapie già in sperimentazione e in applicazione. Le persone con stato vegetativo persistente possono mantenere capacità cognitive residuali e rudimentali. Spesso i familiari registrano «impressioni» di consapevolezza ed intenzione. Imparare a «leggere» e riconoscere questi segnali diviene allora fondamentale.
    La possibilità di un risveglio da uno stato vegetativo persistente oggi a livello scientifico non può essere esclusa aprioristicamente. La storia della Medicina ha già conosciuto successi imprevedibili di questo genere, basti pensare all'esperienza del neurologo inglese Oliver Sacks. Nei suoi libri, tra cui il celeberrimo Risvegli, da cui fu tratto un bellissimo film con protagonista Robin Williams, Sacks descrive i casi clinici concentrandosi sull'esperienza personale dei pazienti. Molti dei casi che racconta erano ritenuti «incurabili».
    Rifiutare la possibilità di uscire dallo stato vegetativo, considerato condizione «irreversibile», significa non solo abdicare all'umanità della medicina, alla speranza di una salvezza, ma anche chiudersi alle possibilità dei risultati della scienza e della ricerca, e questo è autentico oscurantismo.


    RICORDA



    «[Jan Grzebski è] entrato in coma 19 anni fa dopo un incidente nella Polonia comunista del generale Jaruzelski, si è risvegliato ritrovandosi in una democrazia e, per di più, In un'economia di mercato. [...] costretto all'immobilità dopo l'incidente del 1988, i medici gli avevano dato solo due o tre anni di vita. Solo la moglie Gertruda aveva creduto nel suo risveglio. E ha avuto regione. «Mia moglie Gertruda mi ha salvato, e non lo dimenticherò mai», ha detto Grzebski intervistato dalla tv polacca. «Per 19 anni la signora Grzebska ha svolto il lavoro di un team esperto di terapia intensiva - hanno dichiarato i medici che hanno assistito il fortunato paziente - cambiando ogni ora la posizione del marito in coma per prevenire piaghe da decubito».
    (www.corriere.it)



    BIBLIOGRAFIA



    Jean-Domlnlque Bauby, Lo scafandro e la farfalla, Ponte alle Grazie, 2008.
    Salvatore Crisafulli - Tamara Ferrari, Con gli occhi sbarrati. La straordinaria storia di Salvatore Crisafulli, L’Airone Editrice, 2006.
    Oliver Saks, Risvegli, Adelphi, 1986.
    Francesca Lozito, Torino: si risveglia dallo stato vegetativo,

    Paolo GULISANO
     
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